Inclusione


L'Inclusione sociale


In ambito sociale, inclusione significa appartenere a qualcosa, sia esso un gruppo di persone o un’istituzione, e sentirsi accolti. È quindi facile capire da cosa derivi la necessità dell’inclusione sociale: tra gli individui possono esserci delle differenze a causa delle quali una persona o un gruppo sono “esclusi” dalla società. I motivi che possono portare all’esclusione sociale sono diversi:
razza;
sesso;
cultura;
religione;
disabilità.
La discriminazione per uno di questi motivi può avere luogo in ambito lavorativo (decisione di licenziare/non assumere), politico (s’impedisce a un gruppo di persone si essere adeguatamente rappresentate nelle sedi istituzionali), sociale (i diritti fondamentali e i servizi necessari non sono riconosciuti a tutti per ragioni discriminatorie). In sostanza, l’inclusione sociale ha l’obiettivo di eliminare qualunque forma di discriminazione all’interno di una società, ma sempre nel rispetto della diversità.

Dall’integrazione all’inclusione 
L’iter legislativo che ha permesso alla  scuola italiana di abbandonare l’istruzione speciale o differenziale e orientarsi verso un processo educativo d’integrazione, in una prospettiva inclusiva, è stato contraddistinto da importanti tappe legislative. Le più significative sono circoscritte nel ventennio compreso dal 1971 al 1992. Fino agli anni’ 60, per denominare una certa categoria di alunni (gli attuali  alunni con disabilità) esisteva una variegata terminologia: “anormali, subnormali, irregolari, minorati”. Questi alunni potevano essere educati ed istruiti, ma in strutture speciali e classi differenziali, in ambienti loro dedicati. Dunque la persona con deficit, in quanto fuori dal normale (“anormale”, “subnormale” o “minorato”), non poteva fruire degli stessi trattamenti degli alunni “normali”, ma era ammesso a frequentare strutture segreganti. Bisognerà attraversare gli anni 70, anni che hanno visto ingenti trasformazioni nel costume, nella società, nella famiglia, nella cultura, nella politica (la Legge Basaglia è del ‘78) perché si scopra la fine della segregazione e l’avvio dell’integrazione anche a livello istituzionale. Con legge 118/71 gli invalidi civili potevano essere iscritti nella scuola di tutti (è l’inizio dell’inserimento che al tempo qualcuno definì selvaggio), ma la vera integrazione si avvia con legge 517/77.  Ad essa va riconosciuto il merito di aver finalmente dato piena attuazione agli art. 3, 34 e 38 della Costituzione nel sistema scolastico del Paese, ponendo l’Italia all’avanguardia rispetto a tutti gli altri Paesi europei. Una sentenza del 1987 della Corte  Costituzionale riconosce il diritto di istruzione anche agli studenti con disabilità degli istituti superiori per giungere poi alla Legge quadro 104/92  che costituisce l’attuale indiscusso punto di riferimento per tutti. La legge 104 parla di persona con disabilità intendendo per tale una persona che presenta “una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.  
Quindi gli alunni con deficit cessano di essere considerati anormali o minorati ma soltanto soggetti che, pur trovandosi in difficoltà di apprendimento, di 
relazione, non vengano affatto discriminati sul piano umano o sociale, secondo il 
principio dell'uguaglianza garantita dalla Costituzione, la quale non solo afferma la "pari dignità sociale... senza distinzione...di condizioni personali", ma impegna 
la Repubblica a "rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della 
persona... e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, 
economica e sociale del Paese". La nuova denominazione di persona con disabilità
non solo unifica la variegata terminologia utilizzata nel passato (“anormali, subnormali, 
irregolari, minorati”, ecc.), ma sottolinea chiaramente che la persona non è minorata; cioè non è la mera presenza del deficit a produrre l’handicap. Il 
deficit origina svantaggi sul piano dell’apprendimento, della relazione e della 
comunicazione; ove queste difficoltà non ci fossero o fossero ridotte, l’alunno non 
sarebbe in situazione di handicap. Ne consegue che il deficit in sé non provoca 
l’handicap, ma è la condizione contestuale a provocare l’handicap; di qui la corretta 
dizione di alunno “in situazione di handicap” e non “portatore di ….”  che lascia 
intendere un tratto costitutivo della sua persona. 
Oggi con l’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento della disabilità e 
della Salute) si parla di limiti alla partecipazione sociale e non più di handicap; disabilità che può originare anche da motivazioni contestuali ed ambientali, considerando la globalità e la complessità dei funzionamenti delle persone.
Quindi dal ‘77 la scuola è chiamata a realizzare non solo l’inserimento, o una mera socializzazione in presenza, ma l’integrazione nella scuola di tutti, in cui si realizzi 
un unicum, un tutt’uno, un intero. 
L’integrazione è dunque un processo costantemente aperto a ricercare il raccordo 
con l’intero creando costantemente nuove situazioni di apprendimento e di relazione 
che permettano di fare emergere le diverse abilità, non le disabilità comparate. 
Ma l’inclusione? 
Il termine inclusione allarga questo riconoscimento agli alunni con qualsivoglia 
differenza non limitandosi solo ad alcune categorie come quelle dei disabili o di coloro 
che incontrano difficoltà, ma coinvolge tutti gli alunni. Nel corso degli ultimi anni, 
infatti, è aumentato considerevolmente il numero di alunni che presentano varie 
tipologie di difficoltà, le quali non sono riconducibili alle principali classificazioni 
dell’ICF,  ma che avanzano agli insegnanti richieste di interventi “curvati” sulle loro 
caratteristiche peculiari,  che derivano dalla loro situazione peculiare. Una situazione 
di “difficoltà” la quale, non rientrando nei parametri delle classificazioni dell’OMS 
(l’ICF è una delle più importanti) non può essere “certificata” ed avere, di 
conseguenza, una diagnosi funzionale che consenta al bambino di seguire un “percorso 
scolastico” ad hoc. 
Con il DPCM n.185 del 23 febbraio 2006 è cambiato, in senso “restrittivo”, il 
regolamento per la certificazione dell’handicap ai fini dell’inserimento scolastico in 
quanto le attività di sostegno vengono rivolte ai soli alunni che presentano una 
minorazione fisica, psichica o sensoriale stabilizzata e progressiva. Ne deriva che gli 
alunni i quali presentano deficit non gravi né progressivi non possano avere un aiuto 
ulteriore costituito dalla presenza del docente di sostegno: succede che sia loro, sia i 
rispettivi insegnanti vivano esperienze difficili, i primi perché non vedono nessun vantaggio nel frequentare la scuola e i secondi si sentono in difficoltà nell’affrontare e nel gestire situazioni che non rientrano nella “norma”.
Gli alunni che presentano queste e altre difficoltà, ma che non sempre sono 
“certificati”, vengono identificati con l’acronimo BES (Bisogni Educativi Speciali). 

L'evoluzione storica della normativa inclusiva in ambito istituzionale, scolastico ed educativo è stata caratterizzata da diversi fasi: l'esclusione delle persone con disabilità o svantaggiate, escluse dalla società definita "normale", la segregazione delle persone considerate svantaggiate, riunite in gruppi di persone con caratteristiche simili tra loro ma comunque escluse dalle persone "normali", l'integrazione delle persone con disabilità in gruppi di persone con caratteristiche simili tra loro ma inseriti nella società "normale", per poi arrivare al processo conclusivo di inclusione sociale. Quest'ultimo processo è lo stato attuale dell'evoluzione storica della normativa inclusiva verso cui tendere e promuovere, intesa come l'inserimento di tutte le persone con disabilità e non, svantaggiate o meno, all'interno della vita professionale, educativa e formativa dell'intera società, senza discriminazione alcuna.


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